L’edilizia residenziale pubblica ha lasciato in Italia un patrimonio di realizzazioni importanti e controverse, tanto da evocare il “naufragio di un’utopia” (B. Gravagnuolo). Si pensi, per citare esempi emblematici, al “Corviale” a Roma (1975-1984) e alle “Vele” a Scampia (1962-1975), in parte demolite. Criticati, spesso a ragione, come modelli autoritari di residenza; diventati invivibili per tante ragioni. La demolizione viene invocata come unica strategia possibile, come se che per risolvere insiemi complessi di problemi che generano nel tempo degrado, marginalità, violenza, sia necessario cancellarne del tutto le tracce.
Talvolta, invece di ricorrere al “grado zero” della cancellazione, sarebbe opportuno riflettere sugli edifici, sugli spazi aperti, sul verde, per ricercare soluzioni che permettano un recupero critico e un riuso dell’esistente, con un mix di funzioni, attività, abitanti. Senza voler essere deterministi, in certi casi il degrado (a molte dimensioni) dipende anche dalle tipologie degli edifici. Ad esempio, una corte chiusa, con aperture sulla strada intese come semplici varchi, favorisce la formazione di una sorta di enclave protetto, una zona franca per la marginalità e l’illegalità anche in pieno centro.
Invece di una completa demolizione, la riqualificazione potrebbe prevedere una sostanziale apertura di complessi di questo tipo, con tagli nel costruito, spazi aperti collettivi, un mix di residenza, piccolo commercio, etc. Nel caso di edifici residenziali, si potrebbe favorire una composizione socioeconomica diversificata anziché trasferire in blocco i precedenti abitanti altrove e ricreare zone difficili in periferia. (LM)
Lo spazio del gioco è uno dei temi al centro del lavoro di Lab20architecture, a partire dall’idea-guida di “simulazione spaziale” come situazione che lega la conformazione degli spazi alla concreta esperienza del gioco. Un ambiente naturale simulato spazialmente, ad esempio un elemento di copertura in forma di albero, può suscitare nel bambino la sensazione di stare sotto un albero, stimolando un’esperienza che innesca la fantasia e l’immaginazione.
Stare sotto un albero, in una capanna, su un terreno ondulato sono alcune delle esperienze che un playground può permettere, non necessariamente in maniera mimetica ma utilizzando strutture, forme, materiali capaci di attivare l’immaginazione del bambino.
Gli oggetti e gli spazi di un playground non dovrebbero quindi risultare da un repertorio standardizzato, scelto da cataloghi commerciali come avviene spesso nella pratica. Un luogo a misura di bambino può nascere, invece, cercando di immaginare come i bambini – meglio ancora attraverso il loro diretto coinvolgimento a monte del progetto – percepiscono e sperimentano questi spazi e questi oggetti. (LM)
D – Un altro sito di architettura, o studio professionale, è nato improvvisamente mentre in molte realtà territoriali era in corso un dibattito in coincidenza con le ultime elezioni amministrative. Cosa è il Lab20architecture o cosa non è?
R – È un laboratorio di architettura che opera concretamente sul territorio e che nasce da una elaborazione che ci ha profondamente coinvolti a partire dal 2020. Hai citato le recenti vicende elettorali: il lavoro e la riflessione che conduciamo e il dibattito che contribuiamo a stimolare hanno una dimensione intrinsecamente politica, ma non legata a scadenze particolari.
D – Ma la politica è progetto del territorio e visione programmabile del futuro.
R – Politica nel senso che, in base ad un approccio progettuale inclusivo, vogliamo proporre soluzioni concrete di problemi specifici. Soluzioni che abbiano una reale incidenza sulla città e sulla periferia, sugli spazi pubblici e privati, puntando sempre a coniugare al meglio qualità, economia, benessere (individuale e collettivo).
D – Quindi una via intermedia tra il laboratorio organizzato e uno spazio di discussione e di dibattito aperto?
R – Di sicuro possiamo dire cosa non è: non è uno studio professionale che si aggiunge semplicemente a quelli esistenti, ma una struttura plurale, operativa su diversi campi e in modalità differenti. Una struttura che, esplorando nuovi metodi di progetto, coinvolge nelle sue iniziative colleghi, imprenditori, amministratori, cittadini, secondo una visione aperta e collaborativa.
D – È una formula che sembra alludere a strade o a modi nuovi, ammesso che esistano. Quale è la molla? Cosa accomuna voi tre?
R – La novità nasce da un’esigenza reale, sempre più avvertita nell’attuale epoca pandemica dal mondo professionale: la necessità di fare rete, di creare team caratterizzati da competenze multiple, da esperienze diversificate. È questa l’idea che ci accomuna e che ha fatto nascere il progetto di un laboratorio di architettura come spazio collettivo in cui si pratica una continua sperimentazione.
D – Un luogo di partenza e di arrivo alla ricerca di soluzioni nuove, praticabili, condivisibili? Un laboratorio aperto e in continua evoluzione?
R – La frontiera del sapere e della pratica si sposta ogni giorno più avanti, quindi occorre mettere in campo tutte le possibili sinergie per superare gli schemi consolidati e immaginare un’architettura ricca di possibilità e di qualità. Un’architettura estesa alle diverse scale: dagli spazi privati a quelli pubblici, dalla città al territorio.
D –Nello specifico attualmente su cosa state lavorando?
R – Abbiamo in corso una serie di attività riferite ai tre campi di cui ci occupiamo come laboratorio: ricerca, progetto e azione. Stiamo lavorando sul tema dello spazio del gioco inteso, oltre il semplice concetto di standard, come luogo a misura di bambino, sintesi di architettura, verde e infrastruttura ludica.Partiamo dai bambini, e dai luoghi loro dedicati, re-immaginandone gli spazi e le forme in vista di una riqualificazione e di una fruizione estesa a tutti coloro che “abitano” gli spazi urbani.Inoltre, in cantiere, un’ipotesi di rigenerazione urbana in un comune della provincia di Salerno e un progetto per un concorso internazionale di progettazione in ambito UE.
D – Dai piccoli spazi alle grandi aree urbane? Studi e progetti che implicano una ricerca, una conoscenza e un approfondimento della socialità?
R – Sul lato della ricerca, abbiamo avviato una serie di studi su alcune aree urbane di comuni, tra i quali Eboli, studi non accademici ma con una accentuata proiezione operativa, che intrecciano architettura, urbanistica e paesaggio.
D – Un approccio che vi pone, nella vostra Città, anche come interlocutori attivi nei processi programmatici che la dovranno attraversare nei prossimi cinque anni.
R – Come laboratorio ci stiamo attivando con diverse figure, associazioni e istituzioni in vista di eventi e iniziative intorno ai temi della rigenerazione urbana, del riuso, della partecipazione. Riguardo all’operare con iniziative specifiche sull’insieme architettura-urbanistica-paesaggio, che denominiamo “azione”, il nostro lavoro è orientato a leggere situazioni, anche distanti tra loro, da punti di vista diversi, individuando i desiderata degli abitanti, le sollecitazioni e le potenzialità per creare nuovi assetti e scenari.
Architettura Open Source (Einaudi, 2014) è un libro scritto da un collettivo di quattordici autori coordinato da Carlo Ratti e Matthew Claudel. Tratta della progettazione aperta e collettiva, dei processi partecipati di costruzione, con l’intento di elaborare “un manifesto per l’architettura del XXI secolo, in perenne trasformazione”. In una condizione come l’attuale in cui, nel contesto mondializzato, l’architettura vive una sostanziale marginalità (per ragioni diverse nelle varie regioni), la prima domanda che ci poniamo riguarda la figura dell’architetto come autore. Nonostante le promesse della globalizzazione, l’architettura diviene sempre più produzione minoritaria dove la maggioranza, nella migliore delle ipotesi, assiste allo “spettacolo”, mentre l’edilizia continua a recitare da protagonista tendendo al fatidico 99%.
Se l’”architettura senza architetti” (Bernard Rudofsky) offre spesso le risposte più appropriate al bisogno di riparo e di confort dell’uomo, il progetto d’autore è imprescindibile per l’architettura pubblica, dove la comunità affida all’architetto la rappresentazione dei suoi principi e delle sue aspirazioni. Nelle pratiche però il confine tra autoriale e anonimo è piuttosto sfumato. È difficile, ad esempio, che un’architettura si realizzi in piena conformità al suo progetto; abbastanza improbabile che la sua utilizzazione non comporti alterazioni; praticamente certo che le trasformazioni che subirà nel tempo configureranno altri spazi, usi, attività: in definitiva altra architettura. Inoltre, le stratificazioni dell’ambiente costruito accolgono, in un processo di lunga durata, sia il progetto collettivo sia quello individuale.
La modificazione nel tempo è naturale e inevitabile, anche se all’architetto il contributo dell’utente durante il progetto continua ad apparire una limitazione della propria creatività. Rimettere l’architettura nelle mani degli utenti non è semplice e, come ricordava Giancarlo De Carlo, il fallimento è sempre dietro l’angolo. Una forma di mediazione è comunque necessaria per strutturare il coinvolgimento degli abitanti nella progettazione partecipata. Questa mediazione non può essere bypassata: occorre ripensarne il ruolo all’interno delle forme consolidate di organizzazione dell’ambiente fisico. Allora gli abitanti possono partecipare in maniera effettiva al progetto del loro ambiente di vita? Il libro risponde negativamente, ricordando l’esempio dell’”Oregon Experiment” tra gli anni ’60 e ’70, con la coordinazione di Christopher Alexander. Se la partecipazione non ha funzionato nel suo complesso, non è detto però che siano state esplorate tutte le possibilità di una mediazione non autoritaria e non demagogica tra autore e destinatario nel progetto di architettura.
Nell’epoca delle reti si diffonde un nuovo paradigma di connettività e di cooperazione. Interattivo e dialogico, Internet può essere un “laboratorio per un nuovo genere di progettazione”. L’open source delinea uno scenario nuovo – anche in senso politico – per la progettazione, ancorandola alla “economia della reputazione” più che all’economia monetaria, come è avvenuto nello sviluppo di Linux o di Mozilla Firefox. In una logica di apertura e gratuità, il successo di un prodotto o di un’idea passerebbe anzitutto per la quantità di persone che vi partecipano, condividendo servizi e strumenti originati da logiche alternative a quella di mercato. L’open source, le connessioni dialogiche, l’accesso ai social media riconfigurano in profondità la cultura e i modi di vita: con quali conseguenze sul progetto e sulla costruzione degli habitat? Difficile rispondere, visto che le potenzialità delle reti sono ancora largamente inesplorate in rapporto all’architettura e alla città.
Con la diffusione di strumenti come le stampanti 3d a basso costo, si ridefiniscono non solo i limiti tra digitale e fisico, bit e atomo, ma anche quelli tra progetto e realizzazione, con evidenti riflessi sul concetto di autorialità, sul diritto di proprietà (materiale e intellettuale), sul rapporto tra invenzione e riuso. I riferimenti nel libro a Creative Commons e Arduino sottolineano la multipolarità del processo ideazione-realizzazione-uso basato sul feedback, in una prospettiva però tutta da verificare nel campo di produzione del progetto di architettura.
Il progetto di un pezzo di hardware è infatti diverso da quello di un’architettura (nelle componenti, nei modi d’uso, nei segni, nei significati). Non regge quindi l’analogia, proposta da Ratti, tra open source e cultura consolidata del costruire (del tipo “architettura senza architetti”): un’architettura partecipata è anch’essa coinvolta nei processi tecnologici ad alta specializzazione ed evoluzione, e pertanto difficilmente riconducibile a un’idea romantica di costruzione spontanea e semplificata. Gli esempi citati come nuovi paradigmi (stampanti 3D e altri) sono significativi, ma hanno un peso ancora marginale nella concreta formazione dell’habitat. L’idea di un’autocostruzione consapevole, che annulli la “distinzione tra progettista e utente”, rimane un orizzonte ancora indefinito, anche perché questa distinzione è condizionata dall’uso esperto della tecnologia, in primo luogo per la sostenibilità (risparmio energetico, materiali e processi ecocompatibili, riuso, etc.).
L’architettura open source appare dunque ancora lontana. La tecnologia può realmente democratizzare l’architettura mediante l’abbassamento della soglia di accesso alla competenza a progettare e costruire, come ha fatto ad esempio YouTube per la produzione di video e, in genere, il web per la diffusione della fotografia e di altri dispositivi mediali? La straordinaria apertura del web ha senza dubbio modificato in profondità l’accesso a pratiche e territori prima riservati a determinati profili e procedure, ma l’estensione del campo non è di per sé sufficiente a trasformare le prospettive dell’architettura quale disciplina artistica nella quale coabitano visioni e pratiche plurali.
In un mondo in cui la qualità rimane l’unica ragione per far ricorso all’architettura, quale può essere lo spazio per un progetto collaborativo e partecipato? Se il web favorirà una progettazione-produzione aperta e democratizzata dell’ambiente costruito, non si tratterà certo della scomparsa dell’architetto, ma della convivenza di modi diversi di pensare e fare architettura. Probabilmente ciò sposterà il confine tra architettura “colta” e architettura “popolare”, ma non annullerà le differenze e le ragioni costitutive.
L’architetto tradizionale, il cui individualismo risulta già ridimensionato in un contesto di estrema specializzazione, potrebbe così diventare una sorta di mediatore, creatore di eventi, schemi e layout oltre che di progetti, spazi e forme, con il compito di organizzare anche la collaborazione tra esperti e abitanti. Una figura del genere, ammesso che nasca e si diffonda, difficilmente potrà scrivere la parola “fine” ad un processo complesso e potenzialmente infinito come l’architettura. In conclusione, Architettura Open Source mi sembra una stimolante ricerca collettiva che non suggerisce, però, scenari concreti per una futura architettura aperta e partecipata. Il cammino dell’open source appare ancora tutto in salita…
Luigi Manzione
La versione integrale di questo articolo è stata pubblicata su 011+ Independent architecture webzine:
Il laboratorio è il luogo – materiale e mentale – dove sperimentiamo un approccio all’architettura aperto verso l’esterno e basato sul confronto e sulla partecipazione. Piegati spesso dalle difficoltà, noi architetti abbiamo progressivamente ridimensionato le nostre aspettative, alimentando modi di operare individuali e in ordine sparso. Per resistere a questa tendenza, crediamo sia invece essenziale fare rete. Non nel senso di un’autopromozione generica, visibilità astratta sui social media e vuota vetrina misurata dal numero di like. Puntiamo piuttosto sui valori della collaborazione e del confronto con coloro i quali condividono la visione e le intenzioni del nostro progetto.
La nostra è un’apertura non solo disciplinare e professionale, ma culturale e intellettuale. Intendiamo, infatti, il laboratorio come un luogo in cui si pratica una costante sperimentazione, fecondata dalla esplorazione di territori prossimi e complementari all’architettura. Per questo, riteniamo fondamentale la formazione continua, a partire dai temi e dai problemi con cui ci confrontiamo quotidianamente. Attraverso nuove ed efficaci modalità di lavoro cooperativo, ci proponiamo di dar vita ad una “comunità di pratica” che si alimenta grazie a contributi molteplici e diversificati.
Con spirito critico e inventivo, ci sforziamo di operare concretamente in base ad un approccio ricettivo e attento ai differenti contesti, alle esigenze, alle tracce di innovazione, ponendo grande attenzione al dialogo con gli interlocutori, gli operatori, le istituzioni.
Spinti dalla riflessione, dalla sperimentazione (anche manuale e artigiana), dalla curiosità, crediamo fortemente nel superamento costante dei limiti interni ed esterni. Facciamo proprio, in questo, un habitus permeato dalla modestia e dal rigore, nella convinzione che la frontiera del sapere e della pratica si sposta ogni giorno più avanti.
Il laboratorio crede fermamente nella possibilità di coniugare al meglio qualità ed economia. Non ci interessa la retorica del “less is more”; la nostra scommessa è invece quella della concretezza del “fare più con meno”. Può sembrare un’utopia, ma siamo convinti che nel mondo in cui viviamo questa sia l’unica strategia eticamente e poeticamente perseguibile. Occorre oltrepassare gli schemi consolidati e, soprattutto, operare per un’architettura ricca di possibilità e di qualità.
Tendiamo in genere a vedere le manifestazioni estreme del fare architettura: le esibizioni più o meno muscolari delle archistar o le piccole realizzazioni di chi opera in mezzo ad innumerevoli difficoltà. Il fine del nostro lavoro non è una sorta di aurea mediocritas: è piuttosto il perseguimento di una qualità diffusa, intesa – non solo in termini formali o prestazionali – come un valore globale. Un valore conseguibile, i cui benefici sono tangibili. Non un valore aggiunto, ma una opzione vantaggiosa da ogni punto di vista (funzionale, formale, costruttivo, sociale). In questo senso, il laboratorio individua e propone percorsi e obiettivi chiari e perseguibili.
Riteniamo inoltre necessario superare il conformismo e l’omologazione a cui sembrano destinarci più di un ventennio di cultura e di progetto digitali. Per noi è fondamentale la distinzione tra l’architettura come fine ed il digitale (strumenti, tecniche, immagini) come mezzo. Sperimentiamo quindi inedite modalità di elaborazione e di rappresentazione che, invitando a varcare i limiti di ciò che è rappresentato, rimettano in discussione la presunta oggettività e la ricezione passiva dei modelli computerizzati. In questa prospettiva, ci proponiamo di contribuire a ripensare l’architettura quale conformazione di spazi e di forme per la vita rivoluzionata dal digitale.