“Non approvato”: l’illusione della conservazione assoluta

Siamo abituati a pensare il patrimonio storico e artistico come un corpus compatto, materia da catalogare, archiviare e tutelare per sempre. Ma il patrimonio è un insieme di relazioni, oggetti, luoghi definiti nel tempo, segnati da modificazioni, cancellazioni, aggiunte. Nell’idea consolidata in Italia, questo patrimonio si è mutato in un’entità cristallizzata: un palinsesto collettivo e in progress è stato riconcettualizzato in un testo autoriale e definitivo. Si sono recisi i legami con la dialettica permanenza-trasformazione, con le pratiche di demolizione-ricostruzione che, nel solco di una continua “distruzione creativa”, hanno plasmato in profondità la forma materiale e culturale delle città italiane.

Il patrimonio così inteso ha legittimato un’idea di conservazione assoluta. Con l’espansione illimitata della conservazione, vero e proprio cambiamento di paradigma, si è paradossalmente interrotto un fertile rapporto con le preesistenze e con la storia. Un rapporto necessario per guardare i processi di costruzione della città e del territorio alla luce della trasformazione permanente, del confronto e del conflitto tra posizioni diverse, della pubblica discussione e dell’accordo, anche provvisorio e contingente, su determinate soluzioni. La protezione globale è diventata una visione virtualmente a fuoco continuo ma largamente illusoria, che non permette – proprio per la sua estensione indiscriminata – di distinguere le peculiarità, le eccezioni, i valori propri agli oggetti su cui si esercita.

Questa nozione di protezione si è trasformata in un dogma tra i più persistenti del pensiero architettonico nazionale, all’origine della deriva dell’invenzione verso ambiti progressivamente più limitati o, sul versante opposto, verso esercizi progettuali gratuiti e autoreferenziali. All’invenzione si è sostituita la tematizzazione. Tutto è diventato a tema: le città, i parchi, le strade, gli edifici… Nell’era della (presunta) trasparenza comunicativa globale, della riformulazione dei concetti tradizionali di spazio e tempo, come può il monumento (e la città storica, in generale) assolvere alla sua funzione memoriale al di fuori della categoria – economica e culturale – di prodotto di consumo mediatico e oggetto del turismo di massa?

Senza invenzione e reinvenzione, senza possibilità di inserire il contributo di un’epoca nel processo continuo di stratificazione, quale futuro potrà esserci per l’architettura e, più in generale, per le forme e i modi concreti di abitare? La rinuncia a riscrivere parti sempre più consistenti del territorio, a cui ha in larga misura condotto il vincolismo imperante della tutela, non induce solo gli architetti ad abdicare dalle proprie responsabilità etiche ed estetiche, ma produce un numero via via crescente di pagine vuote nella storia dell’architettura e della città.

Nella impossibilità di operare sui contesti stratificati, mediante la sovrapposizione di altre scritture, si perde di vista il futuro, facendolo letteralmente sfuggire. Radicato nella mentalità nazionale, ancora intrisa di culturalismo e di storicismo (nel senso meno nobile dei termini), il vincolismo a 360° si esercita su contesti ritenuti “alti” (le città storiche, i paesaggi notevoli, etc.), lasciando fuori dalle sue strette maglie una porzione di fatto maggioritaria del territorio italiano. Ossia tutto ciò che non rientra nei parametri classici e che sfugge alle definizioni consolidate (di matrice crociana, stabilite in origine durante il fascismo): il territorio non storicizzato, le periferie delle città grandi, medie e piccole, le aree interne, i paesaggi dell’abbandono, i luoghi della dismissione, etc.

In questa estesa no law land italiana è potuto accadere praticamente di tutto, e di tutto continua ad accadere senza che le soprintendenze, gli enti locali, gli attenti difensori del patrimonio di ispirazione “Italia Nostra” se ne siano accorti. Al di fuori dei perimetri delle norme cogenti e delle istituzioni competenti, all’esterno delle “riserve” regolamentari (bellezze naturali, parchi e aree protette, etc.), il paesaggio italiano è stato radicalmente rimodellato e reinventato dalla formazione di un nuovo habitat nazionale spontaneo e individualista, basato sul bricolage e l’autocostruzione, tendente ad affermare il valore assoluto del nimbysmo alle scale più diverse.

I paradossi della protezione assoluta si sono finalmente resi evidenti, codificati in repertori sempre più autoreferenziali, collezioni di regole pronte all’uso a prescindere dai contesti, dai processi, dai soggetti implicati. Lo si può vedere, ad esempio, nei regolamenti edilizi dei centri storici, dove una rigida visione vincolistica poggia spesso su un substrato di cultura cartolinesca. I collages digitale della serie “Non approvato” mostrano una condizione paradossale, ma ordinaria: progetti fondamentali dell’architettura moderna e contemporanea non avrebbero ottenuto i permessi necessari per essere realizzati secondo le normative urbanistiche ed edilizie generalmente vigenti.

Normative nelle quali i divieti sono talmente estesi da non poter installare un’antenna parabolica o un condizionatore, da dover allontanare una canna fumaria dalla facciata o replicare un’insegna commerciale come quella di cinque secoli fa. In cambio, nel mondo reale succede che, dietro le cortine edilizie, si realizzino tranquillamente – e in maniera più o meno abusiva – interventi del tutto estranei ad una qualsiasi logica locale. Dentro gli edifici si possono nascondere infatti “cadavres exquis”, magari per ricostruirli, specie dopo calamità naturali, con lo scheletro strutturale che si preferisce, o che si ritiene di più agevole applicazione. L’importante è che la pelle sia conforme ai parametri stabiliti negli appositi regolamenti e alla nozione di storia sulla quale implicitamente questi regolamenti si fondano.

In questo modo, i centri storici sono ormai tanto rigorosamente tutelati da diventare, da una parte, simulacri di sé stessi e del loro passato, dall’altra risorse liberamente disponibili sul mercato grazie ad accorte strategie di marketing territoriale. Nelle città-monumento, l’ossessione del patrimonio e della intangibilità dello status quo occulta la violenza (anche materiale) cui esse sono sottoposte all’impatto del turismo di massa. La città diffusa diviene, a sua volta, testimonianza evidente della natura paradossale della protezione globale incapace di guardare oltre le antiche mura urbane, oltre che deposito variegato del pensiero architettonico italiano degli ultimi cinquant’anni, più o meno a portata di bricoleur.

Qui, dove vive forse la maggioranza degli italiani, si riproduce, su scala infinita e in modi simmetrici, ciò che avviene in maniera “regolamentare” nelle città storiche, nelle espansioni “moderne”, nei parchi nazionali, con la disseminazione di oggetti governati, almeno in apparenza, solo da un principio di anarchia, “villette geometrili” et similia. Un nuovo catalogo tipologico che, con la relativa dotazione di tetti a falde, materiali locali, colori tenui (e nani sparsi in giardino), ha ridefinito in maniera durevole la morfologia del territorio e l’immagine del paesaggio, senza alcun bisogno di creare nuove iconografie da cartolina. Intanto, continuiamo a far finta di non essercene accorti?

Luigi Manzione

Sintesi del testo elaborato in occasione della Biennale di architettura di Venezia (Fundamentals, State of Exception, Monditalia, 2014); pubblicato nella versione completa su archphoto:

Luigi Manzione. L’illusione della conservazione assoluta | archphoto

I collage digitali apparsi sulla pagine Facebook di OMA/Rem Koolhaas e Twitter di Monditalia:

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